Mar11192024

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Alfredo Martini: la storia vivente del ciclismo mondiale

Alfredo Martini: un uomo ricco di saggezza; un ragazzo che ha vissuto il passaggio della Seconda Guerra Mondiale da partigiano; una persona piena di ricordi preziosi, ma allo stesso tempo dominato da una grande umiltà e disponibilità nei confronti del prossimo. Sempre gentile e disponibile, Alfredo Martini non dice mai di no a chi lo invita a cerimoniali o gare per presenziare come testimonial con la sua pesante e dovuta icona di Presidente Onorario della Federazione Ciclistica Italiana. A quest’uomo, chiunque può leggere nel cuore di essere animato da un grande amore verso il ciclismo, che da sempre rappresenta la sua vita e la sua ragione di essere. Alfredo Martini ha varcato da poco la soglia dei 90 anni (il prossimo 18 Febbraio ne compirà 92), ma non li dimostra affatto. Nasce a Calenzano, alle porte di Firenze, nel lontano 1921: all’età di 6 anni, il padre, con 420 lire, gli compra la prima bicicletta, con la quale il piccolo Alfredo, nel 1928, va vedere il passaggio di una tappa del Giro d’Italia, alle Croci di Calenzano, a due passi da casa. Tra i corridori, vede transitare anche quel mito di nome Alfredo Binda, destinato a diventare il CT del giovane ragazzino toscano.  Ed è qui che scocca la scintilla; da questo momento in poi, dentro l’anima di questo ragazzo degli anni ’20, nasce l’amore per il ciclismo. Un amore che Alfredo Martini porterà con se per tutta la vita, fino ad oggi. Ecco perché, Alfredo Martini, possiamo definirlo una enciclopedia vivente della storia mondiale del ciclismo. Martini è un uomo che ha vissuto quasi tutte le generazioni del ciclismo, da quello eroico degli anni ’20, a quello più moderno delle radioline; dalle bici in ferro di 14kg a cinque rapporti, alle specialissime in carbonio con le ruote lenticolari. La bicicletta, lui l’ha vissuta a 360°, da ciclista prima, pedalando al fianco di campioni del passato dal nome storico altisonante ed eroico, come Magni (il suo amico di sempre, scomparso recentemente), Coppi e Bartali; e da Commissario tecnico della Nazionale (1975 al ’97) poi, salendo in ammiraglia, dalla quale ha guidato alla vittoria i campioni nazionali di due generazioni. Durante la sua lunga carriera da CT, durata 23 anni, Martini ha conquistato l’iride per ben 6 volte. Il primo mondiale arriva con Moser in Venezuela nel ’77; segue quello di Saronni in Inghilterra nell’82; quindi Argentin negli USA nell’86; poi Fondriest in Belgio nell’88; infine la doppietta di Bugno del ’91 e ’92, rispettivamente in Germania e Spagna. Molti di questi ricordi, Martini li porta ancora con se nel cuore, e lo dimostrano le tante fotografie e trofei appesi nel suo studio di Sesto Fiorentino, dove il Maestro mi ha accolto, per questa intervista rilasciata in esclusiva per i lettori di INBICI, che vi proponiamo in esclusiva anche sul nostro sito. Tra le tante foto e ricordi, non poteva mancare quella con colui che Martini considerava un po’ come il “figlio adottivo”, l’indimenticabile Franco Ballerini.

Martini, ci racconti un po’ cosa rappresentava la bicicletta negli anni ’20, e cosa voleva dire fare il corridore in quell’epoca?

“Avevo solo 7 anni quando mio padre mi comprò la prima bicicletta che mi fece fare su misura da un artigiano di Calenzano e che pagò 420 lire. All’epoca 420 lire non erano poche, perché mio padre (operaio della Richard Ginori) ne guadagnava 200 alla quindicina, quindi gli ci volle più di un mese di lavoro per comprarmela. Quella bicicletta mi consentiva di spostarmi, portandomi a fare molte nuove esperienze, cosa che invece non succedeva ai ragazzi che non ce l’avevano. Fu quella bicicletta a portarmi fino alle Croci di Calenzano, dove andai con altri amici più grandi di me e da dove passava la tappa del Giro d’Italia del 1928, partita da Pistoia per arrivare a Modena. Quel giorno vidi passare il mitico Binda, ed è da li che iniziò il mio amore verso il ciclismo, che all’epoca era il primo sport, quello che attirava la passione del grande pubblico. Il calcio era sempre sulla parte bassa della prima pagina dei giornali sportivi, i titoli in alto erano dedicati sempre tutti al ciclismo. Nacque da qui la mia passione verso questo sport, anche perché attraverso la bicicletta si potevano andare a vedere posti nuovi. Ed all’epoca non era facile farlo, poiché i ragazzi cominciavano ad allontanarsi da casa solo intorno ai 15 anni, e non come me che, grazie alla bicicletta invece, ebbi la fortuna di farlo all’età di 7 anni. Insieme ai ragazzi più grandi di me andavo a vedere le corse degli allievi e dei dilettanti, e poi, all’età di 13 anni, iniziai a correre anch’io. Fino a 15 anni lavoravo come apprendista meccanico alla Pignone di Firenze, allenandomi tra un turno di lavoro e l’altro, per poi andare a correre la domenica tra gli aspiranti, che sarebbero gli esordienti di oggi. Quindi mi dedicai sempre di più alle corse, distinguendomi sia tra gli allievi che tra i dilettanti per poi approdare, nel 1941 a 20 anni, nel mondo del professionismo, dove sono rimasto per 17 anni, e da dove mi sono ritirato nel 1957. Tra i miei risultati più belli ci sono la vittoria di una tappa al Giro d’Italia del ’50, che conclusi al 3° posto assoluto dietro a Koblet e Bartali, ed una tappa al Giro di Svizzera dell’anno successivo, che conclusi sul terzo scalino del podio dietro a Kubler e Koblet. Da corridore, tra le gare ed i giri più famosi, in totale ho fatto 5 Giri d’Italia, 2 Tour de France, 12 Milano-Sanremo, 9 Giri di Lombardia, un Fiandre ed una Roubaix”.

Il ciclismo eroico era più duro di quello moderno o sbaglio?

“Prima era più facile per un atleta rispettare le regole, perché c’erano meno attrazioni, meno benessere. Io direi invece che oggi dobbiamo battere le mani a quei ragazzi che fanno ancora i Giri d’Italia, i Giri di Francia e i Giri di Spagna, perché a qualcosa rinunciano. Una volta andare a letto alle nove di sera era già un difetto, ma si riusciva a farlo senza problemi, perché c’erano meno distrazioni. Oggi, invece, tutti hanno la macchina nel garage, cinque televisori in casa, le ragazzine che li aspettano fuori dall’uscio di casa, ecc., ecc., tutte cose controproducenti in confronto a cosa voleva dire fare il corridore una volta. Prima era più facile, non è vero che erano più bravi di quelli d’ora, semplicemente perché avevano un'altra situazione. I ragazzi di una volta avevano meno richiami da parte della società del consumismo. Richiami che, inevitabilmente, oggi portano l’atleta ad allontanarsi da quei traguardi che vuole raggiungere. Vorrei far capire che, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, non eravamo più bravi prima, ma d’inverno recuperavamo molto di più anche perché alle otto di sera s’andava a letto, ma non perché si pensava che ci facesse bene, semplicemente perché non avevamo ne radio, ne tv e faceva molto freddo. Quindi, una volta era più facile fare il corridore. Oggi, invece, è molto più difficile farlo, ecco perché i corridori di oggi vanno applauditi di più di quelli di ieri, ed ecco perché la gente sale in centomila in cima allo Zoncolan facendo 20km a piedi per veder passare i corridori”.

Ci racconti com’era il ciclismo dei tempi eroici, quelli che oggi noi vediamo in Tv in bianco e nero, sulle strade bianche; come facevate con le bici in ferro di 14kg e le maglie di lana a superare i passi dolomitici con le strade sterrate e solo 5 rapporti?

“Lo facevano andando a letto presto la sera e senza fare sesso, conducendo una vita quasi di clausura. Badate, attenzione, potrebbe sembrare una sciocchezza, ma queste due cose che ho detto, da sole, sono molto importanti, perché alla resa dei conti, nel ciclismo, dovremo usare tutte le energie disponibili. Questo, se si vogliono raggiungere traguardi ambiziosi, se poi invece il corridore vuol far prevalere il pensiero che la vita è una sola e che non si debbono fare rinunce, allora non dovrà ambire al successo ed alla vittoria. Nel ciclismo, il corridore non può pensare di fare la vita che fa un comune mortale e poi andare ai giri d’Italia e di Francia con l’ambizione di poterli vincere. E badate bene, che questo non lo dobbiamo chiamare sacrificio, ma una cosciente rinuncia. Bisogna avere ben chiaro nella nostra mente che per raggiungere certi traguardi dovremo rinunciare ad altri tipi di soddisfazioni. Fare l’uno e l’altro vorrebbe dire fare bene entrambi a metà. Se oggi abbiamo meno campioni è perché la vita moderna porta i ragazzi a fare meno rinunce. Questa società ti offre di tutto di più, ti sembra che ti diano il mondo e poi invece dall’altra parte non c’è niente. Quello di una volta è stato definito il “Ciclismo d’Oro” perché c’erano dei fuoriclasse coma Bartali, Coppi, Bobet e tanti altri. Prima non esisteva il ciclismo amatoriale, non si vedevano, come oggi, gruppi di 20 persone in bicicletta alla domenica; di ciclisti c’erano soltanto quelli che lo facevano di professione e sulle strade non se ne vedeva uno ogni tanto per chilometri e chilometri. Oggi è cambiato tutto, in meglio ovviamente, le biciclette sono come dei gioielli e sono diventate un motivo di svago aperto a tutti i livelli. Il ciclismo è diventato uno sport che praticarlo è anche motivo di benessere legato alla salute”.

Ci parli della sua carriera, delle sue amicizie e della famosa rivalità tra Coppi e Bartali, che lei ha vissuto in prima persona.

“La mia non è stata una carriera da campione, ma soddisfacente sotto tanti punti di vista, non certamente quelli economici, perché si guadagnava poco. Però ero un corridore ricercato dalle squadre, perché riuscivo a mettermi a disposizione di quelli più bravi di me e dargli una mano, il famoso gregario. Non a caso sono stato chiamato per ben tre volte da Alfredo Binda per fare i mondiali, quando all’epoca la squadra era formata da solo sei corridori. Inoltre, ho fatto parte anche della squadra nazionale che partecipava al Tour de France per ben due volte. La prima nel ’49, nella squadra dei cadetti capitanata da Magni, l’unico con cui avevo una grande amicizia, quella che si definisce fraterna. In quell’anno, il Tour fu vinto da Coppi, che aveva vinto anche il Giro, un impresa mai riuscita a nessun corridore fino ad allora. Mentre il mio secondo invito al Tour fu nel ’52, quando fu fatto uno squadrone unico (cadetti e professionisti) di 12 corridori, dove fui molto onorato di essere stato di nuovo scelto da Binda e di farne parte. Per quanto riguarda Coppi e Bartali, posso sicuramente testimoniare che anche quando erano grandi rivali si rispettavano l’uno con l’altro. Ma non c’era una grande amicizia tra i due; per intenderci, non andavano a prendere il caffè insieme. Sono diventati più amici una volta che Bartali ha smesso di correre, ossia dopo il ’54”.

Lei Martini ha avuto un grande successo come CT della Nazionale, durante questo periodo c’era qualche corridore che preferiva ad un altro?

“Ho avuto l’onore di fare 23 anni nel ruolo di Commissario Tecnico della Nazionale, durante i quali siamo saliti sul podio 20 volte, portando a casa 6 primi, 7 secondi e 7 terzi. Ma non è stato per niente facile, in quanto abbiamo dovuto lottare con corridori del calibro di Merckx, De Vlaeminck, Hinault, Indurain, Roche, Armstrong e tanti altri. Quindi direi che abbiamo vinto i mondiali di fronte a dei grandi atleti. Tra i miei corridori non ho mai avuto nessun preferito, e questo mi ha aiutato molto. Non sono mai stato tifoso di nessuno, però ho sempre battuto le mani a chi si impegnava e dimostrava di esser bravo”.

E oggi, Martini, perché tra i nostri corridori non ne troviamo più uno a cui batter le mani?

“Perché, come si diceva prima, oggi ci sono troppi richiami da parte della società, e per i ragazzi è difficile fare delle rinunce. Recentemente stanno tornando alla ribalta quei corridori che hanno dei valori, ma più che altro per le corse di un giorno, non per le grandi corse a tappe. Anche se Nibali è un ragazzo che ha delle grandi potenzialità per entrambe. Purtroppo non abbiamo più un grande numero di corridori forti, come in passato, quando eravamo abituati a Coppi, Magni e Bartali. Poi dobbiamo dire che oggi il ciclismo si è globalizzato, non è più ristretto all’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna e il Belgio, ma appunto si è allargato a tutto il mondo. Inoltre, attraverso la struttura dell’Unione Ciclistica Internazionale, con le tante prove che ci sono, i corridori sono molto più stressati dal maggior numero di gare e trasferte che devono affrontare in confronto a quante ce n’erano prima. Un giorno corrono in Africa, due giorni dopo in Danimarca e poi in Australia, è un qualcosa che non consente di avere il fisico sempre al 100%. Ecco perché oggi, un corridore deve stare molto accorto quando firma un contratto, badando di vedere bene il tipo di attività che dovrà fare”.

Martini, ma perché oggi non esiste più il ruolo del capitano e del gregario?

“Perché non c’è più il grande campione, come invece c’era una volta. Se ci fosse il grande campione che fa la differenza ci sarebbero anche i gregari. Bisogna dire anche che oggi sono le strade, quasi sempre con l’asfalto in ottime condizioni, che non consentono più la selezione, come invece poteva accadere una volta. Prima la selezione non avveniva solo perché c’erano dei corridori più forti di altri, ma anche perché le strade ti mettevano in condizione di non riuscire di stare a ruota del corridore che ti precedeva. Mentre prima era un ciclismo individuale, oggi è un ciclismo di gruppo, e questo è principalmente determinato dalla differenza tra le condizioni delle strade di una volta e quelle d’oggi. Non solo, c’è da dire che una volta la selezione era determinata anche dalla lunghezza delle tappe; se si pensa che nel Tour del ’52 l’ultima tappa fu di 354km, credo che abbiamo detto tutto. Si partì alle sette della mattina e si arrivò alle cinque del pomeriggio”.

Cosa ne pensa Martini del doping?

“Non mi piace entrare in questo argomento, e le spiego perché: perché si parla troppo di doping e meno di cultura. Il doping viene dall’ignoranza, perché un corridore può vincere anche senza ricorrere al doping. Come mai un corridore come Contador, dopo essere stato fermo per sei mesi, torna subito a vincere quando rientra alle corse? Come mai si ricorre al doping? Per compensare le cose che non hai fatto e invece avresti dovuto fare? Perché qui si sta avvertendo una cosa, ossia che alcuni dei corridori squalificati per due anni, quando ricominciano rivincono subito. Perché si sono resi conto che se fanno la vita da corridore (come si diceva prima), le loro doti le possono far emergere, se invece usano delle scorciatoie ricorrendo a degli artifizi, prima o poi vengono presi e squalificati. Ecco perché io sono ottimista verso questo argomento, e penso che andiamo sempre di più verso il meglio, il peggio lo abbiamo già passato. Andiamo verso la coscienza che si può vincere anche senza ricorrere al doping, e ce lo dimostrano i vari Contador e Pellizzoti, che appena rientrato ha vinto subito il titolo italiano, dove c’era gente preparatissima. Il doping viene da quei birbanti che cercano di convincere i corridori a fare meno rinunce, proponendo loro certa roba con la quale compensare il lavoro che non hanno fatto. Dobbiamo mandare via i mercanti di veleni dintorno ai corridori, bisogna arrestarli come se fossero dei banditi veri e propri. Non è una pasticca che ti fa diventare un campione. Ad esempio, ricordo che durante le mie uscite d’allenamento con Bartali, dopo 150km, Gino era ancora pieno di energie, continuava a pedalare e parlare, io invece mi sentivo già stanco, e mi mettevo a ruota. Già da li si vedeva che lui aveva la stoffa del campione, dell’uomo di ferro, come veniva definito all’ora, infatti lui vinceva e io no. Ecco perché penso che il campione non si faccia ne con le pasticche ne con le iniezioni, campioni si nasce”.

 

Fonte:

Autore Leonardo Olmi