Sab11022024

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Emanuele Sirotti: oltre due milioni di scatti per raccontare la storia del ciclismo

CESENA - Emanuele Sirotti è l’occhio del ciclismo, col collega Bettini uno dei due fotografi ufficiali del mondo dei professionisti: nella sua longevissima carriera ha scattato quasi due milioni di foto di corse, biciclette, campioni, riempiendo idealmente l’album fotografico degli ultimi 50 anni di questo sport. Il suo erede genetico è il figlio Stefano, il primo clic a 13 anni, nel 1990, durante il Giro stravinto da Gianni Bugno. Da allora la stessa vita nomade del padre, dove c’è una corsa c’è un Sirotti. Anche negli angoli più sperduti del pianeta.

La loro base logistica è la casa di Cesena, un santuario delle due ruote. Gli scatti sono religiosamente conservati e catalogati in migliaia di cartelline che contengono anche le schede di generazioni di ciclisti: vita, morte e, soprattutto, miracoli a pedali.
Stanze e stanzette stracolme di faldoni multicolori. Ognuno al suo posto, ognuno con un adesivo sulla costola: Moser, Argentin, Vuelta ’96, Bitossi, Tour ’88, Kelly, Ballerini... Ci sono tutti. Tutti impilati con una meticolosità certosina, perché questo lavoro è arte, ma anche statistica.
E non è finita, la rivoluzione digitale ha imposto ai Sirotti di trasferire il loro archivio-capolavoro in cd rom e su internet. Un lavorone non ancora terminato ma che ha già dato i suoi primi frutti: al sito internet sirotti.it si è affiancato ciclismovitamia.it, un luogo virtuale dedicato ai collezionisti di foto storiche della bici.

Sirotti, quando è cominciata questa passione?
“Quella per il ciclismo ce l’ho da sempre. I primi ricordi sono del ’46, quando avevo nove anni. Attraverso la radio, la voce di Mario Ferretti portava le imprese di Coppi e Bartali in casa dei miei”.
Lei era coppiano o bartaliano?
“Ero il capo dei coppiani. Quando vinceva Bartali i miei fratelli mi costringevano a lavare i piatti per punizione”.
Le prime foto, invece?
“Nel ’50 con un apparecchio preso a noleggio perché soldi per comprarlo non ce n’erano. Lo stesso anno andai sui Mandrioli coi miei fratelli a vedere il passaggio del Giro”.
Con la macchina fotografica?
“No. Le prime foto al Giro le feci l’anno seguente durante la crono Rimini-San Marino vinta da Astrua. Ero piazzato a 600 metri dall’arrivo, l’entusiasmo era alle stelle ma la tecnica, beh... lasciamo perdere”.
E da allora una foto via l’altra.
“Non esattamente. Mi diplomo ragioniere e negli anni Cinquanta entro in banca. Nel frattempo faccio foto amatoriali. Lascio la mia occupazione nel 1985 quando passo a fare il fotoreporter a tempo pieno”.
Quante corse ha seguito?
“Sono stato 36 volte al Giro, 30 al Tour, 27 ai mondiali e ho fatto oltre 500 classiche. Ho calcolato di aver scattato circa due milioni di foto, comprese anche quelle fatte da mio figlio. Quasi tutte di ciclismo ma c’è anche una piccola parte dedicata al calcio. E poi soggetti singolari come la bici donata al Papa o ai capi di Stato: Pertini, Cossiga, Napolitano...”.
Qual è la più bella?
“Quella che devo ancora fare”.
E quella che la emoziona di più?
“Tutte quelle che mostrano l’umanità dei corridori, con i quali abitualmente non parlo di corse o di risultati ma delle loro famiglie, dei loro figli, di vita vera. Purtroppo...”.
Purtroppo?
“Purtroppo i ciclisti tengono così tanto alla vittoria che cadono facilmente nei tranelli. Per arrivare al successo sono capaci di prendere delle porcherie anche perché, magari, qualcuno gli ha assicurato che non fa male”.
Parliamo allora di Pantani: lei lo ha seguito fin dall’inizio…
“Marco ha pagato per tutti. La sua vicenda umana mi ha lasciato tanta tristezza”.
Fotograficamente come era Pantani?
“In corsa non c’è bisogno di spiegazioni, le sue imprese parlano da sole. Giù dal sellino era veramente un bel tipo. Non gli andava mai bene niente. Mi faceva impazzire perché non amava seguire i miei suggerimenti, voleva fare di testa sua. Se ad esempio gli consigliavo di togliersi il cappellino lui continuava a tenerlo”. 
Quante foto ha del Pirata?
“Circa 20mila scatti, di cui molti inediti”.
La foto che non gli ha fatto.
“Al funerale. Non ho avuto il coraggio di avvicinarmi per fotografare la bara. Mi sono messo lassù, in cima al grattacielo di Cesenatico. Da solo con il mio dolore”.
Ci sono altre foto che ha ‘mancato’?
“Al Giro del ’94 nella picchiata verso Lienz col motociclista non riuscimmo a stare dietro a Michele Bartoli. Andava troppo forte in discesa. Questo si ammazza, pensai. Invece vinse la tappa”.
Le imprese che le sono rimaste nel cuore.
“Quelle di Pantani, non c’è dubbio. Non saprei dare altra risposta. Dallo scatto sul Galibier al Tour del ’98 ai trionfi sull’Alpe d’Huez all’ultima vittoria di Courchevel, nel 2000. Sono molto affezionato anche all’ultimo scatto di Marco, quello di Cascata del Toce, al Giro del 2003. E’ una foto che ha fatto mio figlio Stefano, io non seguo le corse dalla moto dal ’98”.

 

A cura della rivista InBici... passione sui pedali